Una ragazza con la mascherina chirurgica - Pille-Riin Priske / Unsplash
Consigliate o addirittura obbligatorie in alcune circostanze, in questo tempo di pandemia le mascherine protettive sono entrate prepotentemente a far parte della nostra vita, diventando il simbolo visibile dell’emergenza che stiamo vivendo. Una barriera protettiva per impedire il possibile contagio, un confine che mira a separare la parte sana da quella malata. Un nuovo indumento da indossare che cela una porzione del volto, rendendo più difficile riconoscere l’identità.
Questi dispositivi di protezione individuale hanno una lunga storia in ambito sanitario. Già nel Rinascimento, secoli prima che la medicina comprendesse che batteri e virus all’origine delle malattie infettive potevano essere presenti nell’aria, era abitudine coprirsi il naso e la bocca con fazzoletti di stoffa per evitare di respirare i “miasmi” (l’aria cattiva e puzzolente) che si credeva allora fossero la causa della trasmissione delle malattie.
Le prime maschere facciali con scopi medici compaiono però a Venezia e a Roma durante le epidemie di peste del 1575 e del 1630. Avevano la forma di un grande becco d’uccello lungo e adunco, nella cui punta venivano poste paglia e sostanze aromatiche (ambra, mirra, lavanda, menta, chiodi di garofano, aglio, spesso anche garze imbevute di aceto e oli essenziali) in funzione protettiva. Allaciata alla testa, la maschera dei “dottori con becco” aveva le aperture per gli occhi protette da lenti di vetro, mentre sui lati due fessure consentivano di respirare.
In seguito la divisa dei “medici della peste” andò completandosi e perfezionandosi con una tunica di tessuto cerato lunga sino ai piedi, guanti, stivaloni e un grande cappello nero a tesa larga: un abito simile alle armature dei soldati, concepito e realizzato nel 1619 dal medico francese Charles de Lorme (1584–1678). Completava l’armamentario del dottore un lungo bastone per alzare le vesti dei malati e visitarli tenendoli a debita distanza.
Lo scopo di queste maschere era quello di proteggere chi le indossava, mentre le prime mascherine facciali concepite e utilizzate per salvaguardare il malato dalle infezioni iniziano a essere impiegate in ambito chirurgico solo nel 1897. Sono passati pochi anni da quando Robert Koch (1843–1910), scoprendo l’agente eziologico della tubercolosi (1882), ha dimostrato inequivocabilmente che i germi sono la causa delle malattie infettive.
Pochi anni dopo un altro medico tedesco, Carl Flügge (1847– 1923) dimostra che è sufficiente la normale conversazione per diffondere nell’aria goccioline contenenti batteri del naso e della bocca, rendendo i medici consapevoli del pericolo legato alla normale espirazione umana come possibile causa di infezione della ferita chirurgica durante gli interventi, anche in presenza di adeguate misure di asepsi (uso di strumentario operatorio sterilizzato).
Basandosi su queste osservazioni nel 1897 il chirurgo austriaco Johan von Mikulicz Radecki descrive per la prima volta una mascherina composta da uno strato di garza da utilizzare durante gli interventi chirurgici. Sarà però il chirurgo francese Paul Berger il primo a indossarne una per eseguire un’operazione, descrivendo l’applicazione sul viso di «un impacco rettangolare di sei strati di garza, cucito sul bordo inferiore al suo grembiule di lino sterilizzato e il bordo superiore tenuto contro la radice del naso da corde legate dietro il collo».
È nata così la mascherina chirurgica, un presidio da allora indispensabile e imprescindibile in sala operatoria – e più generale in ambito medico – per evitare di infettare ferite, così come qualche anno dopo inizieranno a esserlo i guanti in lattice introdotti al Johns Hopkins Hospital di Baltimora da William Halsted (1852–1922) nel 1899.
In questi stessi anni, accanto alle mascherine chirurgiche ideate e usate con lo scopo di proteggere il malato dal sano (il paziente operato dal chirurgo), nascono anche le moderne mascherine filtranti, oggi note come FFP, atte a proteggere il sano dal malato. Le stesse da cui poi nasceranno quelle professionali, rivolte a salvaguardare il lavoratore da condizioni di rischio inerenti la sua attività.
L’idea è di un medico cinese, Lien–teh Wu (1879–1970), che durante l’epidemia di peste sviluppatasi in Manciuria tra il 1910 e il 1911, riconosce che è la forma polmonare della malattia a diffondere l’infezione. Per consentire agli abitanti di evitare il contagio sviluppa mascherine più sofisticate di quelle chirurgiche, composte da vari strati di garza e cotone sovrapposti, conferendo loro una forma a conchiglia che consente di farle aderire perfettamente al viso per coprire naso e bocca.
Non solo si dimostrano realmente efficaci per evitare l’infezione, ma assumono rapidamente in quegli anni anche una rilevante funzione simbolica: espressione tangibile di una nascente moderna medicina che appare in grado di tenere sotto controllo le epidemie e le infezioni, anche se non ancora di curarle, come avverrà qualche decennio più tardi con la scoperta degli antibiotici.
Destinata a diventare immagine iconica dei nostri tempi, la mascherina, oltre che essere vissuta come importante strumento medico in ambito sanitario, è stata investita anche di una valenza socio–antropologica rilevante. Il medico bolognese Alessandro Gasbarrini e l’antropologo inglese Christos Lynteris parlano di mascherine “altruiste” e di mascherine “egoiste”: le prime, quelle chirurgiche monouso, salvaguardano il paziente; le seconde, quelle filtranti, proteggono solo chi le indossa. Con un’ulteriore specificazione riguardante le filtranti FFP: senza valvola o con valvola per agevolare la respirazione. Queste ultime proteggono bene chi le indossa, ma sono meno sicure verso l’esterno, perché la valvola permette la fuoriuscita dell’aria respirata, e pertanto dovrebbero essere utilizzate solo dal personale sanitario. L’unica categoria a non essere affatto “egoista”, ma anzi a essere assai “altruista”, come abbiamo visto in queste drammatiche settimane.